Gli anni Ottanta dello scorso secolo sono stati, in Italia, un periodo di riflessione attiva sulla Carta di Firenze. Il tema, anticipato dal convegno di San Quirico d’Orcia sui « Problemi d’indagine e fonti letterarie e storiche » (ottobre 1978), aveva trovato il suo approdo nella Carta di Firenze e uno specifico approfondimento nella cosiddetta “Contro-Carta” (o Carta del giardino storico italiano) del settembre 1981. La Carta italiana non era alternativa a quella ICOMOS-IFLA, ma evidenziava l’importanza dell’aspetto della conoscenza e della particolarità, insita in ogni giardino, di essere un unicum in cui convergono i caratteri dell’opera d’arte e della risorsa ambientale.
Il documento interveniva, infatti, sui problemi aperti dagli articoli 2 e 3 della Carta di Firenze e, precisamente, sul concetto di “equilibrio perpetuo” (secondo paragrafo dell’art. 2) connaturato al giardino come prodotto di « natura, arte e artificio », e intendeva contribuire al dibattito sulle ambiguità insite nell’applicazione dello « spirito del restauro » (art. 3). Se, infatti, era ineccepibile (e doveroso) il riferimento alla Carta di Venezia (oggi forse un po’ datata, ma pur sempre fondamentale), la traslazione del concetto di restauro dall’architettura ad un “monumento vivente” di arte e natura non appariva né immediata né scontata.
Nel giardino, molto più che in un edificio, sono presenti molteplici e interconnesse problematiche che coinvolgono svariati ambiti disciplinari e mettono in relazione diretta competenze e azioni che vanno dalle modalità di intervento pianificato sull’impianto e sui manufatti alla definizione della congruità di nuove funzioni e tipologie d’uso. Il processo decisionale è ulteriormente complicato dal fattore tempo, in quanto si applica anche ad un patrimonio vegetale in perenne evoluzione: problema, peraltro, ben presente agli estensori della Carta di Firenze tanto da indurli ad inserire, sia pure per situazioni del tutto particolari, « un ripristino valido dell’idea del giardino storico » (art. 17). In cui il termine “valido” sta ad indicare una gamma pressoché infinita di possibili interpretazioni.
Un limite della Carta italiana resta comunque il suo essere riferita -anche se non in modo esplicito- ai giardini monumentali, ma ha il pregio di collocarli all’interno di un più vasto contesto territoriale e ambientale, chiamando in causa per la loro salvaguardia non solo lo Stato, ma anche le amministrazioni locali. Il fatto che sia stata anch’essa redatta a Firenze e che molti dei firmatari fossero toscani ha contribuito a creare nella regione un clima culturale favorevole che prendeva atto della dimensione e dello stato dei giardini storici e del fatto che, a parte le proprietà statali, solo poche altre erano tutelate e molte rischiavano di deperire se non, addirittura, di andare perdute sotto la pressione edilizia di quegli anni.
Infatti, se allo Stato afferivano i grandi giardini che, pur tra difficoltà, erano sempre stati oggetto di conservazione e cura, a questi si affiancava una moltitudine di aree pubbliche e private che, viceversa, erano carenti sia di protezione legale (notifica) che di un’adeguata conduzione (manutenzione e restauro). Il documento si configurava, quindi, come un approfondimento e un invito a valorizzare un patrimonio della cui entità non si aveva reale consapevolezza. In tal senso influì positivamente sulle politiche regionali: la prima conseguenza fu, infatti, l’avvio, da parte della Regione Toscana, di un censimento sulla consistenza e lo stato dei giardini che includeva anche le realizzazioni del primo Novecento.
Ma, la materia “beni culturali”, com’è noto, è di competenza esclusiva dello Stato e dunque l’azione della Regione Toscana si configurava come un apporto del tutto volontario: la minuziosa schedatura (planimetrie, foto, notizie storiche ecc.) di oltre 800 giardini non è mai stata utilizzata dalle Soprintendenze (ovvero dagli organi competenti decentrati del Ministero dei Beni Culturali) e le schede, compilate a mano in copia unica cartacea, sono rimaste abbandonate negli archivi regionali e in poco tempo sono diventate inservibili. Tuttavia, la messa in atto della catalogazione ha attivato un dialogo interdisciplinare che - pur dovendo aspettare la fine del secolo per avere una “scuola” dedicata al progetto e al restauro del giardino - ha consentito la formazione di un nucleo di esperti non solo capaci di affrontare la complessità degli aspetti del recupero e del restauro, ma, cosa di non poco conto, in grado di parlare un linguaggio comune: finalmente lavoravano, insieme e alla pari, umanisti e scienziati, tecnici ed operatori esperti di giardinaggio.
La prima importante occasione di confronto coincise con i tre giorni di studio (9-11 marzo 1989) di “Boboli ‘90”, che per la prima volta riuniva intorno allo stesso tavolo tutti i soggetti culturalmente e istituzionalmente interessati all’analisi del giardino nella sua evoluzione (storia, biologia, vita ed uso, architettura e idraulica, archeologia) per definire i criteri e le modalità della sua conservazione. Un dialogo a tutto campo che aveva l’obiettivo di produrre il materiale per il Master Plan di Boboli di cui, all’epoca, non esisteva neppure un rilievo integrale dell’intera area né un regolamento d’uso1 .
La scelta di Boboli, giardino-simbolo della dinastia medicea, era emblematica non solo per la sua importanza, ma anche per la sua complessità estetica, storica e botanica. La compresenza di più epoche all’interno del suo perimetro, inoltre, era ed è la testimonianza della vitalità evolutiva e dell’armonia presente in questo monumentale giardino. Infatti, al primo nucleo quattrocentesco (Anfiteatro) e alla sua relazione con Palazzo Vecchio (Corridoio Vasariano) e con le Mura (Forte Belvedere), si è sommato in perfetta continuità l’ampliamento seicentesco (Viottolone e Fontana dell’Isola) voluto da Cosimo I, cui si sono sovrapposti gli interventi lorenesi (Kaffehaus), quelli ottocenteschi di Elisa Baciocchi alla Meridiana fino ai più recenti come il colossale Tindaro Screpolato di Jgor Mitoraj (1997). Un ambiente che non tradisce la sua storia e che offre, oggi, la possibilità di istallazioni permanenti e temporanee di sculture di artisti viventi: una perfetta conferma della continua contemporaneità della cultura e della sua rappresentazione nel giardino.
Mezzo secolo è trascorso da Boboli ’90. L’attività pionieristica di quegli anni è, fortunatamente, un lontano ricordo non solo per gli aiuti che le tecnologie hanno apportato, ma anche per la consapevolezza e la messe di conoscenze che abbiamo accumulato, che ci permettono di programmare e monitorare le operazioni, di differenziare ricostruzioni e restauri scientifici, e di garantire la continuità del giardino senza alterarne lo “spirito”: sostituzione di specie arboree, inserimento di elementi di decoro e di arredo, modalità di realizzazione di eventi sono tutte occasioni consuete che, condotte con l’attenzione dovuta, non solo sono ammesse e compatibili, ma appaiono addirittura auspicabili per restituire agli antichi giardini quella continuità di vita che li rende perennemente attuali. Tuttavia, una nuova insidia si sta delineando: quella dell’eccesso di visitatori. Oggi non solo i maggiori giardini medicei, come accade per i beni dichiarati dall’UNESCO Beni Patrimonio dell’Umanità, ma anche altri complessi importanti come quello delle ville lucchesi, pongono il problema dello sproporzionato carico antropico che si riversa su di loro. Se mezzo secolo fa il nemico era l’abbandono e il disinteresse, oggi il problema è il conflitto fra la conservazione e una sproporzionata fruizione che impone la necessità di educare alla visita, collegandola alla conoscenza o, almeno, ad una sufficiente informazione.
Il giardino, infatti, come qualsiasi altra opera d’arte che si può attraversare e percorrere, ha bisogno di “istruzioni per l’uso”, perché è una creatura fragile, alla perenne ricerca di un’immanente quanto effimera staticità che, quando raggiunta, non dura che pochi istanti. Il suo fascino, del resto, è proprio nel suo continuo cambiamento e, di conseguenza, qualsiasi intervento pone problemi che, ogni volta, sono specifici e particolari. La conseguente difficoltà di applicare regole universalmente valide si scontra con l’essenza stessa del giardino, in quel suo appartenere contemporaneamente al mondo della ragione, a quello dell’arte, della natura e della tecnica, ma anche alla realtà mutevole dei sentimenti, ad un universo di canoni non manifesti, in cui nulla è mai scontato o definito una volta per tutte. Il suo tempo è segnato dai giorni e dagli anni, ma nel giardino la misura dei giorni e degli anni svanisce, così come la sua forma è dettata dal gusto e dalle mode, ma è decifrabile solo se riferita alla società e alla cultura che lo ha generato e accompagnato e al contesto fisico che lo accoglie. I giardini si identificano con il tempo del loro esistere e riflettono la loro natura primigenia di essere luoghi interpretabili e mutevoli, sempre e comunque unici e significanti proprio nello svolgimento del loro sviluppo. Interpretare, senza pregiudizi o protagonismi, il racconto dalla loro storia, delle epoche che si sono succedute e di quanti li hanno pensati, plasmati, curati o mandati in rovina è, con l’aiuto della documentazione e di solidi principi culturali, l’unico metodo applicabile per conservare e tramandare la vita di un giardino.
- Cfr. BOBOLI ’90, Atti del Convegno Internazionale, voll. I e II, Edifir, Firenze, 1989. ↩